
immergersi nella natura
Camminare nel silenzio e scoprire antiche storie...
Lungo il sentiero di San Vili per scoprire un passato ancora intatto o scorgendo caprioli e cervi che nel silenzio brucano erbe di montagna
IRON, IL VILLAGGIO FANTASMA

Lungo la strada che collega Ragoli a Stenico, superata la frazione di Coltura, si incontra, prima dell'imbocco della Val d'Algone, un incrocio sulla sinistra; percorrendo la stradina immersa nel verde si raggiunge, dopo pochi minuti, il piccolo ed antico borgo di Irone (875 mt).
Irone (o Iron) è un villaggio isolato, nascosto da un fitta vegetazione, e desta in chi lo visita grandi emozioni; le case che lo compongono sono compatte e si affollano silenziose in una breve spianata tra l'anfiteatro dei campi terrazzati e la dolce conca prativa dove c'è il pozzo; alle sue spalle il bosco ascende verso il Monte Iron (1874 mt). Il luogo è mitigato da un clima particolarmente propizio che in passato favorì l'agricoltura e la coltivazione degli alberi da frutto. "Le tracce della passata, intensa colonizzazione agricola sono osservabili" - scrive infatti Aldo Gorfer - nei profili dei terrazzamenti e "nelle strade di campagna delimitate da lastre di granito non lavorate".Attestato nelle fonti sin dall'età medievale, il borgo di Irone ha conservato nel tempo l'antico impianto urbanistico-architettonico (è noto che il minuscolo centro iniziò a spopolarsi già sin dalla fine del Quattrocento e questo fenomeno ha certamente contribuito al mantenimento dell'originario tessuto viario medievale); e infatti, ancora oggi, quando si passeggia tra le silenziose stradine di Iron, si ha la sensazione che il tempo si sia davvero fermato.Negli ultimi anni, inoltre, il recupero architettonico del villaggio e la sua valorizzazione, promossi con determinazione dall'Amministrazione Comunale di Ragoli, hanno in parte restituito l'impronta tipica del luogo, con le caratteristiche case dai muri massicci, le porte basse, i focolari in pietra e le possenti travi lignee poggiate su pietre di granito reggenti rustici portici o ballatoi chiusi da traverse di legno (due degli esempi più interessanti di questa tipologia architettonica sono visibili nella 'casa de mont' di Teodoro Cerana e nel cosiddetto 'volt', un profondo e basso andito lungo il quale, sopra un'antica porta annerita dal fumo è incisa l'iscrizione "Osteria / Al Pozzo", a testimonianza del fatto che anche in questo luogo sperduto esisteva un punto di incontro e di aggregazione sociale. Appena all'esterno dell'arcata d'accesso al portico è collocato un possente 'pilastro' di legno, che regge tuttora un massiccio ballatoio, sul quale è segnata la data 1579).
Pare che il borgo, dopo la terribile peste del 1630, rimase quasi completamente disabitato. E il fascino di Iron sta anche in questo: la sua notorietà è infatti legata anche alle numerose storie, leggende e ai vecchi racconti fioriti intorno alla terribile pestilenza di manzoniana memoria che, durante la Guerra dei Trent'anni, si propagò nell'Europa centrale e nel Nord-Italia. Il morbo, portato a Trento in quell'anno dall'esercito imperiale diretto all'assedio di Mantova, non risparmiò le vallate trentine e nemmeno i piccoli paesini delle Giudicarie, anche i più remoti. Stando alla nota leggenda (affrescata anche su un edificio di Ragoli, frazione di Favrio) che ancor oggi affascina i turisti in visita ad Irone, nel 1630 la popolazione del villaggio sarebbe stata quasi completamente decimata dalla peste e un solo abitante sarebbe rimasto in vita, ridotto al compito di guardiano dei morti; costui, dopo essersi appostato su un'altura denominata 'doss dei Copi' (laddove pare esistesse un cimitero), dettò a gran voce il suo testamento ad un notaio in ascolto più a valle, là convocato dagli abitanti dei paesi sottostanti. L'epilogo della vicenda è noto in due differenti versioni: la prima narra che il morbo scemò all'improvviso e il superstite ebbe salva la vita (e avrebbe addirittura ripopolato i paesi vicini), mentre la seconda, più tragica, riporta il suicidio dell'uomo, gettatosi a capofitto dal colle sul quale si era recato per disporre le sue ultime volontà.
Fanno da corollario a questa leggenda, molti altri racconti, uno dei quali identifica in un piccolo ambiente soprastante il 'volt' all'interno del quale sono state rinvenute due croci incise sull'intonaco di una parete - la cosiddetta 'cappella degli appestati luogo dove la comunità si sarebbe riunita per pregare e celebrare le funzioni religi durante l'infuriare della peste, essendo tre pò discosta la chiesa di San Giacomo, mentre nell'attigua stanza venivano accatasta cadaveri in attesa della sepoltura. Ma anche più suggestiva è la leggenda che riferì della presenza ad Irone dei fantasmi degli appestati, aggirantisi attorno alle case nelle notti di vento...
Dunque: Iron e la peste; Iron che rimane senza abitanti oppure con pochissimi; Iron che pare morire ma poi riprende vita negli ultimi anni nei quali si capisce il suo valore. Iron è un'isola, un non-posto talmente bello da sembrare finto, un sogno di quiete e silenzio, di bellezza e di natura. Ma, oltre a tutto ciò, c'è anche la cultura, cioè la serie di segni che l'uomo ha lasciato nel tempo. E ad Iron il segno più importante è sicuramente la chiesetta di San Giacomo, scostata rispetto al nucleo centrale del paese, e il cui restauro, portato a termine di recente, costituisce un ulteriore tassello di quel piano di ripristino e salvaguardia della memoria storica e del territorio.
Attualmente Iron è abitato soltanto durante la stagione calda dell'anno dai proprietari dei rustici e dei terreni, che abitualmente vivono nelle frazioni a valle.E tutto questo accade tutto l'anno con un'unica eccezione nel cuore dell'estate, quando le porte delle antiche case vengono aperte per chi desidera rivivere un'atmosfera dimenticata e per assaporare antichi ed unici sapori. La Pro Loco di Ragoli, infatti, in collaborazione con il Comune, proponendo la manifestazione "Iron, le voci del silenzio" dà la possibilità a tutti di visitare in estate l'antica borgata; spettacoli lievi e suggestivi fanno immergere i visitatori in un'altra dimensione temporale e sonora; una dimensione sospesa dove la vita continua a scorrere ma con un ritmo assolutamente originale. Oltre al gusto e ai prodotti tipici, dunque, si aggiungono l'arte, la musica e la possibilità di vivere per un giorno l'atmosfera di un posto davvero magico, di una bellezza struggente, dove c'è anche un velo di malinconia nel silenzio e nella solitudine di questo piccolissimo paese nel quale, come scrisse Aldo Gorfer molti anni fa "solo il vento bussa alla porta".

CERANA, IMMERGIAMOCI NEL XIII SECOLO
Il villaggio di Cerana sorge su un altopiano digradante disteso sulle ripide pendici sud-occidentali del monte Iron - estrema propaggine meridionale del gruppo dolomitico di Brenta -, alla confluenza della Valle di Manez con quella del Sarca, nelle Giudicane interiori, e domina da 940 metri di quota la conca di Tione e i monti che le fanno corona.
Sotto il profilo geografico, l'insediamento non si configura come un vero e proprio nucleo urbano con edifici contigui, bensì come "sede umana sparsa", luogo cioè dove il territorio si rivela punteggiato di micro-agglomerati di case rurali - una decina circa - dislocati nel verde della vegetazione lungo un'unica direttrice viaria, a una certa distanza l'uno dall'altro. La forma dell'agglomerato sembra aver seguito nel corso del suo sviluppo secolare uno schema libero nell'impianto planimetrico, adattandosi alle condizioni orografiche del terreno: lo snodarsi dei percorsi è coerente con la variazione del rilievo e ricalca probabilmente il tracciato di antichi sentieri, precedenti alla formazione dello stesso paese; la struttura viaria che ne risulta, totalmente svincolata da un centro di irradiazione, evidenzia oltre la mancanza di una recinzione, soprattutto l'assenza di una organizzazione gerarchica degli edifici intorno ad un centro, nonostante si possano rintracciare dei nodi di importanza che coincidono con gli incroci o coi luoghi dove è disponibile l'acqua: la fontana che ancor oggi si vede accanto alla cappella di Santo Stefano, ad esempio, definisce quello che un tempo era uno spazio pubblico, giacché sorge a ridosso dello slargo dove anticamente si trovava la primitiva chiesetta di Cerana, distrutta da un incendio nel 1854, e a pochi passi da Casa Giacomini-Martini, il maso più imponente della Villa. E' interessante sottolineare il fatto che questo edificio sia raggiungibile seguendo due percorsi distinti, l'uno esterno, situato a valle, l'altro interno, una sorta di galleria coperta addossata al lato settentrionale del maso, come a documentare che spesso, nei centri montani, le case contigue, solitamente abitate da più famiglie appartenenti ad una stessa stirpe, erano attraversate da veri e propri passaggi riparati, accessibili dalle vie del paese ad utilità degli abitanti.
Tutti questi aspetti differenziano nettamente Cerana da Iron, il villaggio situato all'estremità opposta del monte, verso oriente, che conserva invece nella struttura urbanistica una certa centralità. Poco oltre l'abitato, la strada si biforca, uno dei tronconi conduce a monte, verso nord-est, nella località detta 'la Nova', o 'Annova', dove sorgono alcuni masi; l'altra diramazione porta invece verso valle, a ovest, nel sito denominato 'ai Copi', oppure 'Capei', dove in passato pare esistesse un cimitero. Sul monte, a quota 1370, ci sono i fienili di Ancis.
Il declivio ove sorge il paesello è mitigato da un clima particolarmente propizio che nei secoli scorsi favorì l'agricoltura e la coltivazione di cereali (orzo, grano saraceno, segale), dei legumi, degli alberi da frutto (meli, peri e noci) e persino della vite. Dell'intensa colonizzazione agricola del passato, favorita non poco dalla presenza in loco di numerose sorgenti d'acqua, non restano che scarse tracce individuabili nei muri a secco - in alcuni tratti oramai ruderi diroccati - dei terrazzamenti e nei vasti appezzamenti di terreno che circondano i masi, oggi per la gran parte invasi dal bosco, ma un tempo messi a coltura dai contadini. Lo sfalcio dei fondi prativi, inoltre, giovò particolarmente all'allevamento del bestiame, specialmente dei bovini, che assieme all'agricoltura costituiva un'importante fonte, sia di sostentamento sia di reddito per i pochi abitanti del luogo.
Attestato nelle fonti sin dall'età medievale (XIII secolo), il minuscolo villaggio di Cerana era all'epoca uno dei centri pulsanti e costantemente abitati della Comunità delle Regole. È noto che in tempi molto precoci, già fra Tre e Quattrocento, iniziò a manifestarsi il fenomeno della migrazione stagionale degli abitanti verso le contrade dell'attuale Ragoli: benché alcune famiglie dimorassero stabilmente a Cerana, come risulta dai registri dagli stati d'anime conservati nell'Archivio Parrocchiale di Ragoli e compilati tra Seicento e Settecento, altre vi risiedevano soltanto durante la stagione estiva, favorevole ai lavori agricoli, per spostarsi invece a valle nel corso dell'inverno. Questa consuetudine si stabilizzò nel corso della prima metà del XVIII secolo, mentre l'abbandono definitivo del borgo si situa in tempi molto più recenti ed è da collegare ai repentini mutamenti sociali ed economici innescati nel Novecento dalla civiltà industriale, che richiamò manodopera nei centri di propulsione del fondovalle cooptandola dalle fila della forza lavoro contadina.Il disagio negli spostamenti dovuti alla distanza dalle nuove vie di comunicazione, congiunto alle prospettive allettanti di un nuovo tenore di vita, contribuì enormemente al fenomeno della diaspora, responsabile dell'abbandono di molti villaggi al loro triste destino di insediamenti fantasma dove, per riprendere una suggestiva espressione di Gorfer, "solo il vento bussa alla porta". Se da un lato il fenomeno dello spopolamento ha ormai irrimediabilmente compromesso l'integrità civica di Cerana e di altri borghi montani che mai più potranno rivivere come vere comunità, dall'altro ha portato il vantaggio di mantenere quasi intatta la fisionomia del piccolo centro, salvaguardandone l'antico impianto urbanistico architettonico, nel quale, ai rustici masi costruiti con blocchi di granito e travi di legno lasciate a vista nei ballatoi e nei fienili dalla tipica fisionomia alpina, si alternano vaste aree verdi.La difficoltà di accesso al sito, oltre a preservarne il paesaggio, che ancor oggi appare arcaico e quasi fuori dal tempo anche per le poche persone che si incontrano, ha inoltre evitato sciagurate aggressioni edilizie che altrove hanno modificato, o in alcuni casi devastato, le linee degli antichi insediamenti. Sino al principio degli anni settanta del XX secolo, infatti, Cerana si raggiungeva a piedi attraverso due percorsi: l'uno si snodava da Larzana e, superata la valle del rio Manez, si inoltrava tra boschi di faggi e abetaie per circa quattro chilometri facendosi sentiero; il secondo costituiva una diramazione della strada del Lisan, una vecchia mulattiera che saliva da Ragoli inerpicandosi nella pineta del versante meridionale del monte Iron, passando dalle cave di Bafal, dove un tempo si estraeva il marmo nero di paragone che da Ragoli prende il nome, per poi toccare Cerana.
A seguito dell'inchiesta di Gorfer sui villaggi fantasma, che richiamò l'interesse degli amministratori locali e dei turisti sul piccolo centro, alla fine degli anni settanta si provvide a riassestare ed asfaltare gli oltre due chilometri della vecchia e ripida mulattiera che saliva da Bolzana di Ragoli, trasformandola nella principale via d'accesso al paese. La possibilità di raggiungere Cerana in automobile ha contribuito alla recente riscoperta del villaggio, motivata non tanto da scopi turistici, quanto piuttosto da fenomeni residenziali a carattere stagionale. Proprietarie dei terreni e dei masi, che abitano saltuariamente, sono una trentina di famiglie residenti a Ragoli.
